domenica 28 giugno 2015

Trattare le persone come se fossero intelligenti: da fare.

C'è una cosa che non vi ho mai raccontato. Niente di strano, ma è giusto che lo sappiate. Tutti.
Che inizio melodrammatico. Se non fossi così intimidita dal mondo potrei anche fare l'attrice. Eh, eh.
Ho scelto di raccontarvela perché penso che possa essere utile un po' a tutti. Agli scriventi alle prime armi, che mandano i propri romanzi in lettura a blog che recensiscono, e a chi recensisce, giusto per evitare di eccedere e di passare oltre. Di non limitarsi a parlare del libro ma a voler fare di più. Di trattare le persone come se non fossero adulti che capiscono, ma bambini da educare e istruire.


Ve la faccio breve, perché ormai sulle dinamiche di pubblicazione di Innamorarsi ai tempi della crisi vi ho fatto una testa grande come un cocomero - mmm. Dunque, riassumendo: autopubblico; panico; e ora che faccio?; ricerca su internet; contatta blog che recensiscono; invia.
Chiaramente non sapevo quasi niente. Inviavo le e-mail con tutte le info necessarie e allegavo il librino. Un po' come per le case editrici.
Primo punto da tenere a mente. Mai, mai e mai inviare insieme alla richiesta di lettura. Se il/la blogger accetta, si chiede in che formato lo preferisce e si invia.
La prima risposta - e per fortuna unica nel suo genere - che ho ricevuto mi ha lasciata a bocca aperta. Non era una recensione, non era una risposta, non era un no. Era un pre-editing pruriginoso. Nella suddetta e-mail mi veniva detto che non si intendeva andare avanti nella lettura perché nel libro c'erano errori di grammatica piuttosto brutti e grossolani.

...
...
...

Non so davvero come rendervi più chiaro il mio sgomento. 
Sapevo che una volta mandata la mia storia a chi, per passione, scrive di e su libri, (non per lavoro. Non a persone che sanno come fare un editing) avrei potuto sentirmi dire che non era niente di speciale, che era banale, scritta in modo poco fluido, una come tante. Quello che non sapevo è che qualcuno avrebbe potuto avere da ridire sulla grammatica. 
Credo di non saper fare un sacco di cose, ma devo anche riconoscere che qualcosa lo so fare. E quel qualcosa ha a che fare con la grammatica. Ho passato gran parte della mia vita a studiare "grammatiche". Di italiano, greco antico, latino (da notare: non ricordo niente). Di francese, spagnolo, inglese (da sapere: ho dimenticato tutto). E poi di nuovo italiano. Ma seriamente, così seriamente che oggi ogni volta che parlo, o che qualcun altro parla, le mie orecchie hanno una sorta di radar che capta tutto ciò che non funziona. 
Non sto dicendo che non faccio sbagli. Ne faccio eccome. Tanti. Qui, nei libri, nella lingua parlata. Però di solito li vedo/sento. Me ne accorgo. Posso farli in un commento su Fb ma in un libro... cielo, spero di no, dopo tutte le riletture. 
Non sto a farvela troppo lunga. Quello che vorrei dirvi è che tutto mi aspettavo tranne che mi si dicesse che c'erano degli errori. 
Errori? Errori brutti? 
Errori? Oh santa madre! Che cosa ho fatto? Dopo averlo riletto miliardi di volte ci ho lasciato degli errori? Oh signur! Ma che mi dice la testa? Ma cooooosaaaa ho fatto?
Anni e anni di studio buttati... nel cesso. Veramente?
Poi mi sono calmata. Insomma, ero sicura che non ci fossero errori. Sicura. Non al cento per cento. Diciamo al 95%. Refusi: sì. Errori: no. Ma mai dire mai. Così ho riletto la parte che era stata coperta di infamia (sì, lo so, mi sto lasciando un po' andare) e non ne ho trovati. O almeno, nessun errore che io potrei considerare tale. Che io presenterei come errore grammaticale. Così ho replicato dicendo che quelli non erano errori di grammatica, ma scelte (usare il passato prossimo invece del passato remoto o del presente; ripetere i concetti - che è alla base di tutto il libro -, etc.). La persona ha iniziato a girare intorno al tutto risentedosi in modo evidente della mia osservazione.
Io sono rimasta senza parole. 
Era la mia prima e-mail, il mio primo contatto. 
E insieme agli errori grammaticali mi veniva anche detto che: la premessa era ridicola (mi sembra un buon modo per fare una critica costruttiva a un libro, no?); mi sarei dovuta approcciare in modo diverso nelle e-mail (perché non fare pure l'editing dell'e-mail?). Insomma, sono stata trattata come una bambina di cinque anni. Perché non sono mai solo le cose che si dicono, il problema. Ma il modo in cui le si dicono. 
Vi lascio immaginare il piacere che ne è scaturito.
Ma... perché fare una cosa del genere?
Se avesse detto che aveva visto delle caratteristiche che non lo/la attiravano e che secondo lui/lei non ne facevano un buon libro, mi sarei ritirata in un eremo e avrei cominciato a mungere le pecore accompagnata da un cane da pastore così bello da far invidia alla regina Elisabetta. Non avrei potuto replicare nulla se non che era stato/a comunque gentile ad avermi dedicato del tempo.
Se avesse detto che lo/la infastidivano le "d" eufoniche mi sarei data al giardinaggio. O le avrei eliminate. Insomma, non so niente di editing, è tutto da imparare per me. Avrei accettato tutti, ma dico tutti i consigli possibili (cosa che ho fatto, compresi i suoi). 
Ma se mi dici che le cose che non ti piacciono sono errori di grammatica... cambia tutto, soprattutto se mi tratti come un'idiota.
Parliamone insieme. Analizziamoli uno a uno.
E tutto crolla.
Secondo punto: non pensare di saperne più degli altri perché spesso gli altri ne sanno più di noi. E si rischia di non fare una bella figura.
Comunque, dopo 30/40 minuti di ragionamenti, "mah", "boh" e quant'altro, ho concluso che no, probabilmente c'era stato un errore alla base. E l'errore era stato mio, perché invece di dire "ok, fa' niente", mi sono arrovellata per cercare di far capire all'altro/a che la grammatica è ben altra cosa. 
Tuttavia, devo riconoscere a costui/costei dei meriti. Perché io non sapevo che la "d" eufonica non si dovrebbe usare nei romanzi. E non sapevo nemmeno che fosse meglio non usare gli avverbi. Solo che questa cosa non l'ho capita. Che significa? Come è possibile non usare gli avverbi? Quali avverbi? Ce ne sono un sacco. Hanno usi diversi, significati diversi, rilevanze diverse. Non ho indagato e come potete ben vedere li infilo da tutte le parti con grande amore, ma sarei curiosa di sapere qualcosa in più.

Comunque, alla fine di tutto ho capito. E ho capito che era lo stile. Lo stesso stile che vedete qui. Uno stile, secondo me, adatto al mio blog, a un diario e soprattutto... alla storia di Dafne. E allora ho tirato un sospiro di sollievo. Perché se non vi piace lo stile, lo capisco. Se non vi piace l'idea di ripetere la stessa parola per far presente il concetto, se non vi piacciono le frasi corte, se non vi piace il passato prossimo, lo capisco. Se pensate che non sia scritto bene lo capisco. Se vi fa schifo, lo capisco. Piango, ma lo capisco.
Ma la grammatica... santa madre! Ne potremmo discutere per ore. 

P.s. - è stato l'unico caso. Tutti gli altri litblog, quelli che mi hanno risposto, chiaramente, sono stati cortesi, educati e critici nel modo giusto. 
Il mio racconto voleva solo ricordare a tutti, me compresa, che è sempre consigliabile volare basso, e trattare le persone come se fossero intelligenti. Perché è probabile che lo siano. 

P.p.s.- stavo per censurare anche questo ma mi son costretta a pubblicarlo. 

P.p.s. - quanti errori ci sono?

P.p.s.- Posso continuare a mettere postille?

M. 

venerdì 26 giugno 2015

E così venne inviato... alla casa editrice

Hai deciso che il prodotto del tuo lavoro - ingobbamento precoce, dolori alla schiena, fitte al braccio che impugna il mouse, affaticamento visivo, stanchezza mentale, etc. a parte - è concluso. A questo punto devi, molto semplicemente e banalmente, mandare ciò che hai scritto a una o due, facciamo pure tre o quattro, case editrici. 
Come ti muovi?

Tanto per cominciare, visto che lo hai riletto solo due o tremila volte, riguardi di nuovo la tua storia per essere sicuro che continuerai a non vedere gli errori che hai fatto perché lo hai letto troppe volte e nel giro di troppo poco tempo. Un mese non basta, in effetti, ma te ne infischi perché non ne puoi più di vederlo lì e allora lo mandi lo stesso.


Poi, se la casa editrice accetta il formato digitale:
- scrivi la sinossi 
- scrivi una breve presentazione di te stesso. Giusto perché sappiano come ti chiami e chi sei. Un'idea vaga. E che sarà mai!
Il dramma. Perché chiaramente non sai cosa dire di te. A parte che non sai cosa dire di te.
Lo superi. Ce la fai. Scrivi solo il nome, il cognome e l'età. Ok.
- alleghi la storia
- firmi
- invii, ma prima di farlo inizi a sudare e ti trema l'indice con il quale dovresti premere il pulsante
- cominci a disperarti e a ripeterti che non succederà mai niente. Sudi. Ti viene da vomitare. Nemmeno per un esame universitario entravi così in palla. Sì dai, per quelli sì.

Se invece la casa editrice vuole il formato cartaceo inizi a sbroccare. Perché??? gridi contro il mondo - magari anche no, visto che rompi l'anima al prossimo.  
Le cose stanno così: se decidi di inviarlo anche solo a tre o quattro case editrici devi far conto di spendere un discreto quantitativo di soldi. Portalo a stampare - ohhh nooo! Non voglio che il tizio che fa le stampe sappia che è un libro! - pare sia escluso. Allora lo stampi a casa - e finisci la cartuccia della tua troppo economica stampante - e poi lo porti a rilegare - nooo! Mi chiederà che cos'è e io vorrò fagocitare me stesso/a! 
Che piaga che sei. Santa madre.
Vai avanti. Compri una busta, scrivi i dati, spendi soldi per inviarlo. 
E poi? La casa editrice se lo fagocita (lei preferisce la carta a te) perché è strapiena di libri di esordienti che magari sono anche più bravi di te. Quasi sicuramente. Però lo devi fare comunque. E lo fai.

Ma allora, non era meglio trovarsi un agente? Perché l'idea dell'agente spaventa così tanto? Cosa c'è di così preoccupante nella sua persona?
Non lo sai ma come la stragrande maggioranza degli autori te ne infischi e continui per la tua strada. Da buon somaro ottenebrato dalle abitudini paesane.

E perché non darsi ai concorsi? Perché quelli, pensi, di sicuro non li vinci. Ma insomma, vuoi che non ci sia almeno una persona che ha scritto un libro più bello del tuo? Ce ne saranno decine, centinaia. Hai perso già in partenza. Fai bene a non pensarci nemmeno.  

Ad ogni modo, ormai l'hai inviato. Non ti resta che aspettare.
E rileggere. Perché non dovresti stressarti in attesa di ricevere una risposta?
Dunque aspetti e rileggi. 

Ebbene... ciò che avete appena letto non è necessariamente legato a me. I riferimenti quali il non voler dare informazioni personali, o la stampante, o la nausea, sono palesemente miei, ma il resto è solo uno spunto di riflessione. Calibrato, chiaramente, sul tipo di persona che sono io. I procedimenti, però, sono gli stessi per tutti.

La causa di questo ragionamento è che l'invio del cartaceo mi perplime molto. Perché io, pur arricciando il naso se sento dire che anche i nati negli anni '80 possono essere considerati nativi digitali, il cartaceo per un manoscritto non lo capisco tanto. Mi sembra un tale spreco di carta... non pensate semplicemente a voi, o a quei manoscritti che meritano di essere letti e pubblicati. Pensate a quante persone scrivono e inviano le loro storie ai tanti e, ancor di più, editori. Pensate a quelle persone che scrivono bozze di niente. Storie che non stanno in piedi. Parole che marcano la carta senza raccontare nulla. Pensate alla quantità di materiale che viaggia da una città all'altra per approdare a una casa editrice che potrebbe leggere appena due pagine per decidere che è da cestinare. Un romanzo di 400 pagine, solo fronte. Romanzi e romanzi di 400 pagine, solo fronte.   


Mi domando: che senso ha? Non sarebbe meglio verificare dal digitale quanto possa essere sensato il manoscritto? Tipo: verificare se rientra nelle linee editoriali, se ha un capo e una coda e se è stato scritto con discrete capacità scrittorie. Se funziona si potrebbe procedere con l'intero romanzo.
Mi domando: perché alcune grandi case editrici lo bandiscono categoricamente e altre rifiutano altrettanto categoricamente il digitale? 

Domande che svolazzano da una parte all'altra del blog e che poi si incastrano nella tela del ragno. Perché c'è sempre una tela del ragno.
C'è sempre un manoscritto che viene inviato.
E c'è sempre qualcuno che suda quando preme invio. 
Ma che ci possiamo fare?  

 M. 

martedì 23 giugno 2015

Sigle e serie

Dovrei smettere di scrivere post che poi non so quando pubblicare. Dovrei scrivere, darmi giusto giusto un giorno per controllare che ciò che ho scritto abbia senso e poi postare. Invece lascio lì a lievitare - uhm - queste intense e sublimi chiacchierate sul niente e poi non so mai quando cliccare il tastino arancione che sta a destra e che sembra pulsare. Pubblica, pubblica, pubblica. Pubblica 'sto cacchio di scritto e datti una mossa. 
E sia.

Non avevo idea che alcuni di voi avessero questo grande interesse per le serie tv ma dopo aver visto che il post su The 100 ha avuto un buon riscontro ho deciso di scribacchiare qualcos'altro riguardo ai telefilm. Questa volta, però, non farò nessuna opera di convincimento.
Qualche giorno fa, pensando a una delle mie serie preferite/odiate/che causano tormento, ho pensato a quanto mi piacesse la sua sigla e ho così deciso di segnalarvene un po'.
Siccome non so quanti video può reggere un blog senza esplodere, e siccome qualche settimana fa ho litigato di brutto con Blogger e ho paura che possa farmela pagare per i miei tentativi mal riusciti di fare quello che mi pare come mi pare, per guardarle dovete cliccare sul nome della serie, tranne nei due casi in cui si palesano ai vostri occhietti curiosi.

1. Game of Thrones - Non c'è molto da dire a tal proposito. La serie è unica nel suo genere per così tanti motivi che sarebbe difficile elencarli, e lo stesso vale per la sigla. Castelli che prendono vita sotto gli occhi con una plasticità sorprendente. A ogni stagione si scoprono fortificazioni e città indispensabili per capacitarsi di quale sia lo spazio in cui si svolge la storia. Come per ogni fantasy che si rispetti, in cui è la mappa del regno a ricoprirne la funzione, la sigla dà una visione d'insieme. La colonna sonora, poi, una meraviglia. Se vi piace l'originale vi consiglio anche questa versione perché è uno spettacolo. 
Eviterò di esprimere qualunque tipo di giudizio su com'è finita l'ultima serie. Se non dicendo che non voglio più guardarla. Ecco, ho detto tutto. 

2. Chuck - Una delle mie serie preferite in assoluto. Il fatto che il protagonista sia un nerd aiuta molto, lo ammetto. Il nerd, il negozio di nerd, i comportamenti nerd. La spia, la superspia, lo spionaggio. Zachary Levi. Le risate. Ha tutti gli elementi per conquistare. La canzone mette una bella allegria e l'omino-spia è uno spasso.


3. The 100 - Sapete che mi sono innamorata di questa serie, ve ne ho già parlato. Mi sono innamorata di tutti loro e mi sono pure innamorata della colonna sonora. Dei buoni, dei cattivi. Dei buoni che diventano cattivi. Delle ragazzine che diventano guerriere. Degli attori, che sono tutti belli anche quando sono brutti. Della musica. Per esempio di questa canzone. 
Voglio la terza stagione. 


Quelle che leggete sotto non rientrano tra le mie serie preferite ma sicuramente hanno una sigla che merita.

4. Da Vinci's Demons - Il telefilm non mi ha detto molto. Se all'inizio mi aveva convinta per lo spaccato rinascimentale che raccontava - Firenze, i Medici, la bottega di Verrocchio - l'eccesso di "magia" - stranamente - non mi ha permesso di mantenermi attiva e interessata. Peccato. La sigla comunque ha il suo perché.

5.  Outlander - La musica abbinata alle scene prese per metà rende la sigla affascinante e accattivante. La Scozia, gli scozzesi, il gaelico e i costumi hanno sicuramente pesato sul mio giudizio. Sto seguendo la serie in modo non puntuale ma non è male.

Vi ho parlato dei telefilm degli ultimi anni e ho deliberatamente scelto di non considerare quelli di fine anni '90 o dei primi anni 2000 perché Blogger avrebbe veramente avuto tutto il diritto di alzare il suo dito medio contro di me. Sarebbero state troppe.

E voi, quali sono le vostre sigle preferite? I cartoni animati non valgono. 
E le vostre serie preferite? Di nuovo, i cartoni animati non valgono.

Emmeggiandovi,
M. 

giovedì 18 giugno 2015

Blog, seguito e individualità

Tento di non farmi imbrogliare dalla pubblicità dei cornetti gelato che imperversa in tv. Da quei ragazzotti che, felici di essere in vacanza, vagabondano da una spiaggia all'altra mangiando delizie a non finire senza prendere un grammo.
Voglio un maledetto cornetto. 
Ma ne farò a meno perché non sono un'adolescente errante ma una giovane/adulta più o meno stanziale che deve affrontare l'irritante prova costume.
Tutto ciò non ha niente a che fare con il tema di oggi, quindi posso anche concludere e passare al dunque, e cioè...

Tra i blog che seguo ci sono i litblog, anche se non tanti come vorrei. La causa di ciò è che non mi piacciono le critiche negative. Badate bene, non vado in cerca di blogger che decantano la beltà di evidenti ciofeche, ma coloro che sputacchiano in modo palese su certe letture mi creano un vago disturbo. Per questo ho abbandonato alcuni blog che davano i voti. Con voti intendo stelline/fiocchettini/conchiglie e via dicendo. Alcuni, non tutti, perché ci sono blog che, pur utilizzando dolcissime coccardine/cuoricini/orsacchiottini, dicono le cose come stanno senza eccedere in malignità, presentando i libri in modo impeccabile (vedi Sognando tra le righe, che non ha rating e che esprime le sue opinioni senza sovrastare quelle del possibile lettore, e Briciole di parole, che ce l'ha ma che giustifica con estrema dolcezza ciò che non apprezza). 

Con il tempo, quindi, ho scremato. 

Poi ci sono i blog in cui riesco a muovermi, più o meno, tranquillamente perché mi sento a mio agio in ciò che leggo, nella modalità in cui i proprietari si approcciano e nell'empatia che in qualche modo si è creata (sapete chi siete).
E poi ci sono i blog a cui non riesco ad accedere. Quelli che seguo ma che mi respingono. Non c'è nessun Gandalf che, capelli al vento, urla "Tu non puoi passare!". Sono io il Gandalf di me stessa e lo sono perché quanto a commenti sono una disadattata. L'ho capito, a questo punto. Ho un blog da quasi un anno e ancora non riesco a rispondere a modo o a scrivere una mia idea sugli articoli degli altri. Non me ne faccio un gran cruccio, però... sarebbe carino poter andare oltre, poter comunicare qualcosina in più. 
 

Va anche detto che alcuni blog facilitano l'interazione sia attraverso domande poste ai propri interlocutori, sia attraverso risposte a commenti mentre altri non lo fanno in alcun modo. Vuoi per mancanza di tempo, vuoi per mancanza di voglia, vuoi perché "chi esser tu, sciocca M., che ti muovi scodinzolando nel mio territorio?" rimangono estranei al nuovo. Io sono estranea un po' a tutto, quindi non raggiungiamo dei grandi risultati. 

Altro punto interessante che a suo modo è collegato ai blog è l'idea di individualità. Ci ho messo 32 anni per raggiungere la mia anormalità. È mia. Mi piace com'è e voglio che rimanga mia. Il modo che ho di scrivere, quello che ho di parlare, come mi rapporto alla gente, come sorrido, come chiamo le cose, come arrossisco.  

Individualità. 

Questo pensiero è emerso qualche tempo fa quando mi sono accorta che pur avendo abbastanza visualizzazioni le persone che commentavano non erano poi molte. Nessun problema, mi son detta. Io sono la maga-del-non-commento, quindi perché pensare che per gli altri dovrebbe essere diverso? Poi ho temuto che potesse dipendere da come io mi approcciavo ai lettori. Troppo diretta, troppo arzigogolata, troppo demenziale. Se mi fossi rapportata in modo meno strano avrei potuto ottenere altro. Se avessi scritto cose più serie, in modo più usale, avrei potuto ottenere più chiacchieranti. Se mi fossi adeguata alla modalità comunicativa di altri blog avrei visto risultati diversi. Più condivisione verbale. 



Ma il pensiero è durato circa cinque minuti. Dieci, dai. Poi è scomparso. 32 anni. 32 anni per diventare così. 32 anni per accettare che sono timida, per strutturare la persona che sono, per digerire che non sono chiacchierona come pensavo. 32 anni per creare e plasmare uno stile di scrittura che, bello o brutto che sia, mi appartiene. E mi piace. Per questo non ho intenzione di cambiarlo né di cambiare il resto.

Se anche qui, nel mio mondo, dovessi relazionarmi al mondo nel modo in cui il mondo si aspetta, e non in quello che mi racconta, finirei per chiudere tutto e darmi allo sport. Tipo al ciclismo, o al tennis. Non certo al calcio, alla pallavolo o al pattinaggio (i migliori). 

Quindi, tirando le somme, il mio bloggerello non cambierà. Mi piacerebbe avere più commenti? Sì, chiaro. Mi piacerebbe che altri blog mi integrassero senza sforzi eccessivi da parte mia? Sì, chiaro. Sono disposta a cambiare il mio modo di approcciarmi ai blog/blogger? Uhm... no. Perché è l'unico spazio completamente mio, è l'unico ambiente in cui posso essere in tutto e per tutto quello che mi sento di essere. Quindi: pace. 
Vedervi gironzolare qui in giro è bello comunque.

Baci, emmelettori silenziosi. 
Baci anche al Gandalf che si nasconde da qualche parte.
E baci a tutti gli emmetesori che, in un modo o in un altro, ci sono. 

M. 

P.s.- talvolta mi autocensuro. Avevo pensato di farlo anche con questo articolo ma non avrei tenuto fede al predicozzo soprascritto.  

P.p.s.- questa cosa di scegliere un giorno fisso a settimana per i post mi stressa. Sappiatelo. Sappiate che da oggi potrei iniziare a pubblicare a caso. :D 

venerdì 12 giugno 2015

Endgame e...

L'estate è arrivata e per me inizia il periodo in cui il tempo per leggere quasi scompare. Per leggere, per scrivere, per bloggeggiare, per... posso dire cazzeggiare? Si tratta del periodo lavorativo più intenso.  

 
 
So a cosa state pensando. Ma come, il periodo più figo dell'anno è quello in cui tu lavori di più? 
Già.
Ma anche: e a noi che ce ne frega?
Uh.
Oppure: pensi di essere la sola?
Uhm.

 Ciononostante continuo a fare tutte le cose che voglio fare e quindi sclero. Sclero a modo mio, ovviamente, cioè in silenzio. Non urlo, non mi arrabbio, non ho scatti di nervi improvvisi, non tratto male nessuno. Sclero facendo qualche frignatina, sclero mettendo il broncio a me stessa e sclero ricordandomi che "chissenefrega del lavoro! Io voglio essere felice". Me lo dico ma poi, nelle ore di lavoro, lo ignoro.

Purtuttavia (ma senti che roba) faccio tutto ciò che voglio fare. Coccole, relax, uscite, gelati, scribacchiate sul blog, scribacchiate di capitoletti, letture. Solo che negli ultimi mesi sono stata un po' sfortunatella quanto a libri interessanti. Non ho letto niente che mi prendesse al punto da farmi dimenticare di bere e mangiare. 
Ho letto molto, ho letto tutto. Alcune storie le ho trovate molto carine, altre piacevoli, altre ancora strane. Mi ostino a leggere New Adult pur sapendo che mi innervosiscono. A mia discolpa posso dire che quando compri un libro su Amazon non c'è scritto New Adult. C'è scritto Romance. Curiosa come una scimmia e sdolcinata come una confezione di caramelle gommose, mi fiondo a comprarlo e poi... delusione. Vengono descritti i più sordidi dettagli. Ma perché? Mi piacciono i baci, e mi piacciono le descrizioni dei baci. Mi piace quando si parla di sentimenti, quando si sussurrano le cose. Ma te prego, le produzioni corporali no. Te prego. Non voglio sapere cosa succede a lui/lei quando arriva al dunque. Lo sappiamo tutti cosa succede. Non raccontarmelo. Te preeego.
 

Tra gli interessanti annovero Endgame. Non ho ancora capito se mi è piaciuto o no, però è indubbiamente innovativo e particolare. Lo stile è alternativo, la trama è ben pensata. Non lo so. Ho sofferto dall'inizio alla fine perché la storia è raccontata da più punti di vista, una dozzina circa, e avevo paura che i personaggi a cui mi stavo affezionando morissero da un momento all'altro. Non che sia facile affezionarsi a qualcuno in un libro come questo. 
Insomma, non so proprio che dirvi, se non che ho deliberatamente ignorato il gioco. Ne avete sentito parlare? Qui trovate le regole. Se, come me, volete arrivare subito al dunque della comprensione, vi consiglio di fare un salto sul blog Sognando tra le righe per capire al volo di cosa si tratta. Io ho finto che il gioco non esistesse e mi sono letta il libro come avrei fatto con qualunque altro, ma forse non funziona così. Magari se mi fossi impegnata invece di scorrere con l'indice sulla pagina degli indizi - l'ho letto dal Kindle -, la storia avrebbe avuto un altro effetto. 

Nondimeno (ah!), ho preso a seguire svariati blog. Questo ficcare il naso nelle parole degli altri, nei pensieri, nei ragionamenti, è bello. Non è un vero ficcare il naso ma voglia di condividere un'idea. Se becco la persona che la pensa proprio come me è una figata.  

Mi piace leggere cosa scrive e pensa la gente e, come ben sapete, mi piace scrivere. Ciò che mi piace meno è armeggiare con il blog. Devo essere più precisa: armeggiare con il blog è divertente. Non è affatto divertente non riuscire a fare le cose che vorrei fare. 

Qualche settimana fa, per esempio, ho apportato dei piccoli cambiamenti. Probabilmente voi non ve ne siete accorti perché ho replicato quasi in tutto quello che c'era prima, però ho sconvolto ogni cosa. Dopo averlo fatto i post apparivano scritti in lettere più piccole e non riuscivo a modificarli. Nell'unico caso in cui ci sono riuscita i paragrafi sono stati scomposti a suo piacimento. Mi snerva questa parte tecnologica. La tecnologia no, mi aggrada, ma la tecnologia che non riesco a gestire perché non risponde ai miei comandi è un'altra storia. Che poi, sarà vero che non risponde ai miei comandi, o sono io che faccio qualcosa di sbagliato? Chi lo sa.  

M., la donna tecnologica
Ah, ah. 

giovedì 4 giugno 2015

Cookies: non si mangiano ma si usano, pare

Emmosi,
come ve la passate? Io ho sconfitto la faringite e ne sono fiera. Il fatto che la vittoria dipenda dall'antibiotico non intacca minimamente il senso di potenza che mi pervade. Anzi, voglio una corona sulla testa, uno scettro tra le mani e un giullare di corte che lodi la mia abilità. Ho vinto. 

Ora che ho magnificato la mia persona posso andare al dunque. 
E quindi al panico.
O al nervoso.
O all'abbandono del blog.
Non perché io voglia davvero abbandonare il mio bel blogghettino ma perché ho scoperto che il Mondo ha deciso di mettere in difficoltà me e tutte le personcine che come me non ne capiscono un accidente di blog e siti.
Parlo della Cookie Law


Quando ho letto le info sul blog di Michele non mi ero posta tanti problemi. Ma rileggendolo, e ponendo attenzione sul suo sonetto - ho deciso che è un sonetto - ho iniziato a farmi delle domande. E a non darmi delle risposte.
Questo perché nonostante le mie ricerche non sono riuscita a trovare niente di valido per placare le mie incertezze. 
Non tralascerò il fatto che è assurdo che venga richiesto a impediti come me di fare roba sensata nel proprio blog. Se una persona che non ne sa assolutamente niente del web decide di aprire un suo spazio su internet - senza sapere dove cacciarsi le mani, se non in quel posto dove non batte la luce e che è bene non nominare - non gli si può chiedere di dare un'informativa sui cookies. No, no, non insinuate che se non sa dove mettere le zampe se le deve cacciare lì. O che non deve aprire un blog. No. Anche se avete ragione: NO. 

Ora, io un'informativa (le info le trovate qui) la posso pure mettere, ma... 
  • si devono identificare tutte le categorie di cookie e le loro finalità > Quali diamine sono? Non ne ho la più pallida idea. Non sapevo nemmeno che avessero delle finalità. Non capisco a cosa serva tutto ciò. Appena mi rendo conto dell'utilità di un blog. 
  • si devono identificare le terze parti che potrebbero inviare dei cookie > Chi? Chi sono? Come lo scopro? Come posso dare dati di questo genere se non so cosa siano?
  • si devono elencare i cookie in base alle finalità di trattamento > Ma in che senso?
  • si devono identificare i link alle privacy policy e ai moduli di consenso delle terze parti con le quali il titolare/gestore del sito ha stipulato accordi per l’invio dei cookie dallo stesso sito. In mancanza di contatti con le terze parti o nel caso in cui fosse particolarmente difficile individuare tutte le terze parti inserire i link alle privacy policy degli intermediari > Eh?
  • si devono aggiornare le privacy policy > Mmm. 
  • si devono creare script che gestiscano il consenso all’interno del sito. Questa è l'unica cosa che sono in grado di fare. Ma serve, se non faccio tutto il resto? E davvero rischio di prendere una multa perché non ho le abilità per fare niente di tutto quello che mi viene richiesto?

Dopo aver letto e riletto una decina di articoli, l'unica cosa che mi rimaneva da fare era chiudere il blog. Vi ricordo che lo streptococco aveva la meglio e vi assicuro che ragionare su come proteggere l'umanità dai Cookies quando avrei voluto proteggere me stessa dal mal di testa che è scaturito dopo le mille ricerche non era per niente simpatico.
Intorno alle 15.00 di mercoledì pomeriggio, con la felpa sulle spalle e la coperta sopra - i 30 gradi esterni e i 25 interni mi facevano un baffo! -, - primo giorno senza febbre, felice di poter finalmente fare qualcosa che non fosse rotolarmi sul divano -, avevo deciso di mollare tutto. Pensavo: se faccio quello che ho visto fare a molti blog non mi comporto come è espressamente richiesto. Faccio una parte di ciò che dovrei fare e non so nemmeno se la faccio bene. D'altro canto, pagare qualcuno per fare questa cosa, sempre che sia fattibile, mi pare assurdo. 
Ma insomma, guardatelo. Vi pare un blog che sa come e cosa fare? Vi pare un blog che ha idea di quali siano i suoi cookies? Sempre che ne abbia di personali. Suppongo di usare solo quelli di terzi.
Non mi rimaneva che chiuderlo però... sono andata avanti e ho litigato con Blogger. Poi Michele, dall'alto della sua saggezza, mi ha indicato un link che non ha del tutto schiarito il cielo ma ha indubbiamente riportato un po' di sole.
Per farvela breve: mi sono adeguata e ho cercato di fare del mio meglio. Probabilmente non c'è una cosa che sia fatta bene ma oltre questo non so andare. Trovate il tutto qui

E voi?

Ho approfittato di questo scombussolamento per inserire le pagine statiche - anche perché quella sui cookies è obbligatoria - e integrare La versione di Alessio in modo più ufficiale. Vi ricordo che se non vi è piaciuto Innamorarsi ai tempi della crisi sarebbe meglio evitare di leggere pure questo. Lo dico per voi, eh.  

P.s. - Per dimostrare le mie incapacità basta pensare al fatto che ho inavvertitamente dato invio a un post che era solo in rilettura, cioè questo. Forse dovrebbero davvero vietare la gestione di un blog a persone con tali livelli di inefficacia tecnica. Non ci sarebbe nemmeno il dubbio su come fargli inserire la pagina dei cookies. 
Per farla breve: il post del venerdì è questo. 

M. e i cookies che invia senza saperlo

martedì 2 giugno 2015

Felicità è un pizzico di noce moscata

Giugno. 30 gradi. Vedo il sole che illumina il cielo e le strade. Lo vedo attraverso il vetro, oltre le tende. Ma lo vedo e basta. Perché io sono a casa con la febbre e lo streptococco.
Non c'è bisogno che vi narri il mio disappunto attraverso meste e infastidite descrizioni né che vi racconti i pensieri funesti sugli sferici gram-positivi che mi punzecchiano la gola, per cui vado subito al dunque. 

Quando diverse settimane fa ho ricevuto la nomination per il Liebster Award (coccarde e musichette di giubilo si diffondono nell'aria) ho risposto a una domanda relativa alle copertine dei libri. Che siano cartacei o ebook, la copertina è essenziale. Mi aspetto che, in un modo o in un altro, rispecchi ciò che è all'interno del libro e se non mi colpisce temo che non possa colpirmi nemmeno la storia. Ovviamente non sempre questa congettura si trasforma in teoria e/o in realtà. Mi è capitato di leggere libri favolosi che avevano un'immagine esterna non molto propedeutica e altri con una foto o delle illustrazioni spettacolari con un impasto che nascondeva una fregatura. Un po' come quelle uova di Pasqua gigantesche, colorate e dal sapore delizioso. Ti aspetti che la sorpresa sia magica, tipo un elicottero telecomandato, un portavivande, un grattacielo, il martello di Thor a dimensioni naturali, e invece ci trovi... una gomma. Un lapis. Un pupazzetto di plastica. 
Insomma, checché se ne dica la copertina è rilevante. E pure la sorpresa.
Per questo oggi vi parlo di questo libro. Quando ho visto l'involucro esterno ho perso la testa. Era così simpatico, allegro, spensierato. Così colorato, tenero, amichevole. Non poteva che essere un libro favoloso. Il titolo però mi turbava. Non sono fatta per le storie che intrecciano le trame con il cibo. Ma questo...
Meg non ricorda quasi nulla della propria infanzia, ma poco importa: la madre Valerie, svagata e fantasiosa, l'ha cresciuta nutrendola di storie meravigliose sul suo passato e sulla sua famiglia. E intanto, nella cucina che profumava di frutta e cannella, sfornava a ripetizione un dolce più buono dell'altro. Le ha raccontato, per esempio, che alla sua nascita la casa si era riempita improvvisamente dell'aroma intenso della noce moscata; che da piccola era così dolce che le bastava intingere un dito nel tè per zuccherarlo; che suo padre era un grandissimo pasticciere morto mentre preparava una magnifica torta... Il giorno in cui ha scoperto che sono tutte bugie, Meg ha scacciato la fantasia dalla propria vita, e anche la madre. Dopo molti anni, la malattia di Valerie la riporta in quella casa che continua a profumare di dolci. Dove, nella sua ostinata ricerca della verità sul proprio passato, Meg forse per la prima volta si avvicina davvero alla strana creatura che è la madre, scoprendo a poco a poco il motivo delle sue tante, estrose bugie. E a poco a poco impara a conoscere il suo mondo, un mondo nuovo che le riserva moltissime sorprese, fra le quali anche l'incontro con Ewan, il giovane e affascinante giardiniere di Valerie, che parla con le piante come un filosofo e sa tutto di mitologia classica. Forse, in fondo, la vita non è un perenne scontro fra mente e cuore, fra logica e sentimenti, forse è semplicemente un misto di verità, bugie e tutto quello che sta nel mezzo...
Una storia atipica, una madre fantasiosa, una figlia troppo realista. Un giardino. Una cucina. L'impressione è di leggere due mondi che si sovrappongono. A volte ho avuto la sensazione di essere fuori dalla regolarità, in uno spazio narrativo completamente costruito, fantastico, ma poi c'era qualcosa, una parola, un fatto, un dato concreto che mi riportava alla quotidianità. Non credo di aver mai apprezzato prima un libro che spazia in questo modo. Quando ho finito Felicità è un pizzico di noce moscata ho pensato di aver letto qualcosa di strano. Ho letto un libro che mi ha emozionato senza che fossero i colpi di scena ad aumentare il mio ritmo di lettura. L'ho letto solo per il piacere di leggerlo. 
Meg, con il suo bisogno di realtà, con la sua voglia di sapere, si fa voler bene e lo stesso sentimento lo scatena la madre con le sue stramberie e il suo amore incondizionato per il prossimo. 
Lo stile dell'autrice mi ha incantata.
Continuando il paragone con le uova di Pasqua, sarebbe come aprirne uno dai colori vivaci e dal sapore delizioso e trovare come sorpresa un segnalibro. A me piacerebbe molto. Ma si sa, io ho una passione smodata per i segnalibri. E per le copertine simpatiche. E per la cioccolata, soprattutto se è al latte.  

Voi che state leggendo? Questo vi ispira?
 
M., la febbre e lo streptococco